di Salvo Barbagallo
Quando si vuole veramente una “cosa”, devono essere messi da parte necessariamente i “se” ed i “ma”, i dubbi e le incertezze, e prendere delle decisioni. Lasciarsi vincere dalle incertezze, dai dubbi, dalle perplessità equivale ad accettare compromessi, che non sono mai scelte definitive. Il momento che l’Europa sta attraversando, che il mondo intero sta attraversando, probabilmente costituisce già una tappa fondamentale per il futuro immediato e lontano: forse è questa la ragione principale per la quale i soggetti protagonisti (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Iran e Israele) stentano a prendere una decisione per risolvere l’attuale situazione socio-politica-militare che possa soddisfare tutti. Sul tappeto, infatti, non c’è soltanto la questione di eliminare il Califfato jihadista (sedicente Stato), ma quali equilibri ricreare “dopo” nei territori originari in cui è nato ed è proliferato.
Quella che si sta attraversando è una condizione stranamente simile alla guerra che le grandi potenze abbracciarono per sconfiggere il nazismo di Hitler, destinato inevitabilmente a soccombere sotto l’urto di una coalizione disposta a tutto. Sono noti i problemi che si crearono dopo la fine della seconda guerra mondiale e le ripercussioni che si ebbero nei decenni a seguire proprio a causa della “spartizione” non solo di territori, ma anche delle cosiddette “zone d’influenza”. Il problema, quindi, non è “battere” il terrorismo dell’Isis ed estirpare il bubbone jihadista. Forse è questo uno dei motivi principali che spingono molto Paesi arabi a fiancheggiare occultamente l’Isis, pur ufficialmente lottandolo con gli alleati occidentali. In questo momento l’Isis, il terrore perpetrato in nome di Allah, sono utili a tanti protagonisti di questa brutta storia. Il guaio è che – sia in occidente, sia nel mondo islamico – non c’è (generalmente parlando, cioè nelle diverse collettività) la consapevolezza di quanto sta accadendo: il terrore la fa da padrone, e non potrebbe essere diversamente.
Maurizio Molinari ha scritto sul quotidiano La Stampa dell’altro ieri (23 novembre, a dieci giorni degli attentati di Parigi): Diplomatici e analisti studiano quello che fino a poco tempo fa sembrava impensabile: un nuovo equilibrio in Medio Oriente che superi l’assetto attuale. Modello Bosnia o ancora più spinto? (…) James Dobbins, inviato speciale di Barack Obama in Afghanistan e Pakistan fino al luglio 2014, sostiene che «i negoziati di Vienna devono puntare al cessate il fuoco in tempi stretti per dare modo alla diplomazia di lavorare su una soluzione per la Siria sul modello della Germania 1945» ovvero suddividendola in quattro Stati: curdo nel Nord, sunnita nel Centro, alawita sulla costa e quindi un’«area internazionale» dove ora si trovano i territori occupati da Isis. Insomma, Raqqa come Berlino. «La Germania è rimasta divisa per 44 anni, perché non immaginare una soluzione simile per la Siria?» si chiede l’ex stretto collaboratore di John Kerry. Lo «schema tedesco» che suggerisce è a base etnica, coincidendo con gli scritti di Eric Kaufmann, docente di nazionalismo al Birkbeck College di Londra, su «cantoni in Iraq e Siria autonomi all’interno di federazioni» oppure indipendenti. Yoav Limor, veterano degli analisti militari israeliani, sostiene che «per ridare stabilità al Medio Oriente bisogna passare dagli Stati geografici creati dagli accordi di Sykes-Picot nel 1916 a quelli etnici» e dunque «dopo la sconfitta dello Stato Islamico da parte della comunità nazionale» potranno nascere al posto degli attuali Siria e Iraq quattro diverse nazioni: sciita, sunnita, curda e alawita sui territori dove queste etnie costituiscono la maggioranza degli abitanti (…).
Il punto della questione, pertanto e a nostro avviso, è la visione e la “interpretazione” del “dopo” che rallentano la lotta al terrorismo jihadista sotto un’unica egida.
Fabio Mini, generale di corpo d’armata, già capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa, su Il Fatto Quotidiano dell’altro ieri (23 novembre) ha scritto: Lo schema è quello classico di azione e reazione: ma se davvero lo Stato islamico ha cominciato a pensare in termini globali occorre vedere se ha le capacità pratiche di sostenere una tale dimensione. Il problema è risolvibile militarmente in poche settimane, il vero nemico sono i rapporti tra gli Stati che lo sostengono e fingono di combatterlo (…) . L’Isis è soltanto ciò che noi vogliamo che sia. E abbiamo cominciato malissimo già chiamandolo in questo modo. Lo chiamiamo Isis o Isil o Daesh. Acronimi equivalenti (Stato Islamico di Iraq e Siria, o di Iraq e Levante) che contengono una chiave geografica, una religiosa (Islam) e una politica (Stato). Ma l’Isis non è uno stato, infrange continuamente la Sharia, non amministra un territorio e controlla soltanto tre tratti del corso dell’Eufrate, del Tigri e della bretella che li collega da Mosul a Raqqa. Sfrutta le risorse locali e gestisce il traffico di quelle provenienti dai numerosi sponsor dichiarati, occulti diretti o indiretti, tutti consapevoli di alimentare il terrorismo. Non è un califfato perché nessuno, nella comunità islamica (…).
Il problema, dunque, non è sconfiggere il fantomatico Isis e il concreto e reale terrorismo che lo fa vivere, ma ciò che si dovrà determinare, appunto, “dopo” che Isis e terrorismo jihadista sono stati schiacciati. Yoav Limor, veterano degli analisti militari israeliani, sostiene che per ridare stabilità al Medio Oriente bisogna passare dagli Stati geografici creati dagli accordi di Sykes-Picot nel 1916 a quelli etnici e, dopo la sconfitta dello Stato Islamico da parte della comunità nazionale potranno nascere al posto degli attuali Siria e Iraq quattro diverse nazioni: sciita, sunnita, curda e alawita sui territori dove queste etnie costituiscono la maggioranza degli abitanti.
Ma Yalta non ci ricorda nulla?